ANDY WARHOL 
al Complesso del Vittoriano
di Julie Kogler


“La pop art è un modo di amare le cose”.
Questa sua celebre frase permea tutta la carriera di Andy Warhol, nato a Pittsburgh di origini slovacche e sbarcato a New York nel ’55 con un bagaglio di idee che da lì a poco avrebbero ribaltato tutti i concetti d’arte finora conosciuti. 
La mostra di Andy Warhol allestita al Vittoriano permette di cogliere uno sguardo dietro le quinte della sua fervida e prolifica produzione artistica e di osservare questa figura determinante per l’ascesa e lo sviluppo della cultura popolare del secondo Novecento. 
Il visitatore sembra compiere un viaggio a ritroso calandosi in quegli anni in cui la vita mondana irrompeva nella scena culturale della Grande Mela: ogni festa, vernissage o evento in cui spiccava la presenza di Andy Warhol generava tendenza.
Il percorso della mostra si snoda attraverso diverse sezioni tematiche che illustrano la vasta e eclettica opera di Andy Warhol. La prima è dedicata alle icone intramontabili, come il ritratto di Liz Taylor, i famosi Flower e le Marilyn. La novità della stampa in serigrafia che Warhol impiega per realizzare sia questi ritratti che i quadri in sequenza raffiguranti la lattina della Campbell’s Soup o le bottigliette della Coca Cola, lo rendono un vero precursore della tecnica della riproduzione seriale dell’opera d’arte (diffusione di massa). 
Elaborandoli con i colori acrilici, delineando solo i tratti distintivi di volti e figure, e ripetendoli senza limiti, riesce ad conferire un’aura altrimenti immanente solo alle vere opere d’arte a questi beni di consumo quotidiano, segnando uno spartiacque per la storia dell’arte. 
Seguendo il percorso espositivo, si entra in una stanza interamente ricoperta di specchi e adornata  di tanti fiori stilizzati che lancia il visitatore in un mondo sospeso nel tempo dove ognuno si riproduce visivamente, si moltiplica all’infinito, scoprendo immagini di sé con sfumature cromatiche sempre nuove che vengono proiettate sulle tante superfici riflettenti. Come nell’opera di Warhol lo stesso soggetto viene ripetuto innumerevole volte, anche all’interno di questa scatola di specchi sfaccettata, si scorge la propria immagine ripetuta continuamente grazie a questo caleidoscopico gioco di luci e colori. 
A fare da sfondo sonoro sono le musiche rock dei Velvet Underground.
Procedendo, si scoprono le contaminazioni e collaborazioni di Warhol con l’ambiente emergente della musica en vogue dell’epoca, testimoniate dai numerosi cover che l’artista realizza su commissione. Risaltano tra questi il cover dei Velvet Underground & Nico che raffigura una banana che una volta sbucciata appare come un simbolo fallico, o la copertina dell’album “Sticky Fingers” dei Rolling Stones il quale è rappresentato dal cavallo di un jeans con la zip in vero metallo. 
L’ascesa della musica rock di queste band acclamate avanza in concomitanza con l’emergere dello star system, di un nuovo Olimpo costellato dai divi del cinema e della moda, mentre il ricercato personaggio di Andy Warhol diventa il fulcro, il punto di riferimento per la vita mondana newyorkese. 
L’hype del momento è entrare nella galleria dei ritratti che Andy Warhol comincia a realizzare dei belli e famosi, di quei personaggi che influenzano il mondo in termini estetici, del life style, della moda e, appunto, della musica. Numerosi ritratti in mostra raccontano la vita brulicante della Factory (dal ‘62 al ’68 locata nella East 47th Street a Midtown), diventata oramai il luogo accentratore per vip e stelline dal calibro di Mick Jagger, Liza Minnelli, Paloma Picasso, Sylvester Stallone o John Wayne e di tanti altri. Persino l’effige di figure storiche, distanti anni luce dall’American way of life, come per esempio Mao Tse Tung, vengono trattate da Andy Warhol con la stessa tecnica della riproduzione serigrafica che, ripetendo e stilizzando, svuota dal loro contenuto ideologico e politico per elevarle a icone pop.   
La sua straordinaria capacità di disegnatore lo porta a eseguire molte commissioni per importanti boutique di New York e per aziende di calzature già negli anni Cinquanta. Le sue illustrazioni per il calzaturificio di alta moda I.Miller, vengono successivamente pubblicate nelle edizioni domenicali del New York Times. Le opere che ritraggono alcuni esemplari di queste scarpe, ingrandite a ampia scala e spogliate delle loro connotazioni particolari, diventano prototipi estetizzati dell’oggetto usuale raffigurato.  
Infine, si giunge alla sala allestita come lo è stata la Silver Factory, con le pareti rivestite di carta d’alluminio che permette di immergersi nell’atmosfera affascinante dello studio frequentato dal jet set di quegli anni. Sotto gli occhi dello spettatore, si dipana una carrellata di foto polaroid dell’epoca, tra cui i famosi Self portraits di Warhol così come i personaggi travestiti della serieLadies and Gentlemen
Chiunque passasse per la Factory doveva essere immortalato da Warhol in uno scatto con la polaroid - celebrità o illustri sconosciuti - oppure ripreso con la cinepresa, favorendo così l’ascesa al ruolo di protagonista, anche se solo per un istante. L’ambizione di poter godere di quei 15 minuti di celebrità da quel momento è diventata la massima delle generazioni successive, lo slogan per la gente comune che sogna di lasciare un segno nella storia, di poter trovarsi sotto i fari o di diventare famosi per un giorno. Spinti dalla brama di mostrarsi, la propria immagine viene oggi veicolata dal Grande Fratello oppure mediante la documentazione meticolosa della vita quotidiana postando foto, video e commenti sulle reti delle comunità digitali, con l’aspirazione di essere visti o scoperti.
Forse i self portraits di Warhol sono i precursori dei selfies odierni, che chiunque può scattare all’infuori di qualsiasi contesto specifico. Ma che cosa resterà di questo esibizionismo trasversale? Chi si interesserà a rivedere le nostre foto digitali depositate nei data base comunitari tra cinquant’anni?   
Durante la sua vita, Andy Warhol si trovava sempre nelle città più effervescenti, circondato da personaggi che insieme a lui hanno lasciato l’impronta, diventando icone del loro tempo. 

Di quale espediente tecnologico un Warhol si servirebbe ai giorni nostri? Forse la risposta si potrebbe trovare sempre nella sala dedicata ai polaroid in cui oltre l’ambientazione luccicante della Factory sorprende l’istallazione di un computer. Si annota che nell’85, alla presentazione di questo nuovo computer che vedeva coinvolto l’artista, Warhol avrebbe cercato di disegnare i flower e altre sue icone con il mouse. Questo suo tentativo appare premonitore per un approccio alla grafica e all’elaborazione di immagini attraverso il medium digitale del computer. 

Alcune opere in mostra sono l’espressione dei numerosi legami che Warhol ha intrattenuto con l’Italia e che hanno influenzato la sua ricerca artistica, suggerendogli soggetti e visioni. Nella ritrattistica appaiono personaggi della moda e cultura italiana come Enzo Esposito, Valentino o Giorgio Armani, ma Warhol indaga altresì su figure indissolubilmente legate alla civiltà italica tra cui la consueta veduta del Vesuvio, che modifica artisticamente travolgendone le percezione. Similmente, Warhol esplora l’opus di Leonardo da Vinci nella sua rivisitazione della Monna Lisa. La profonda ammirazione che Warhol nutre per il genio rinascimentale italiano emerge ancora una volta nella sua personale elaborazione dell’Ultima Cena, al cui cospetto l’artista americano era rimasto tanto colpito. E come se il re della Pop Art avesse percepito un presentimento della sua fine imminente, durante la sua permanenza milanese nell’86, esegue il suo tributo emblematico al dipinto leonardesco. Andy Warhol muore poco dopo, ma c’è chi continua a coltivare la sua eredità visiva, collezionando le opere e le idee di questa ricerca unica e irripetibile, mettendole in scena per un pubblico trasversale che segue il concetto democratico della produzione e fruizione dell’arte propagata dal padre fondatore della Pop Art. 


luogo: Complesso del Vittoriano Roma